L’orizzonte temporale d’investimento è il periodo di tempo che intercorre tra la prima uscita finanziaria e la liquidazione definitiva di un investimento
Un errore comune è quello di stabilire un orizzonte temporale di lungo termine – 10, 15, 20 anni o anche di più – partendo dal presupposto che “tanto questi soldi per ora non mi servono”
Se si fa riferimento a un arco temporale così ampio è naturale che si verificheranno degli eventi, inattesi e non programmabili, che metteranno in discussione quell’investimento
“Il tempo nel mercato batte il tempismo con cui si entra sul mercato” è l’aforisma più indicato per gli investitori alle prese con l’incertezza di questi tempi. E dato che si naviga a vista sui mercati, stabilire un orizzonte temporale è determinante per definire un investimento finanziario. Si tratta di uno dei primi passi da compiere per avviarsi verso una gestione consapevole ed efficace del capitale, affiancati da un consulente esperto. Il tempo, infatti, è uno degli alleati più importanti dell’investitore, perché più è lungo quello che si ha a disposizione e più il mercato avrà da offrire in termini di opportunità di crescita. Guardando a ritroso, i mercati premiano i risparmiatori più pazienti, soprattutto quando si tratta di strumenti relativamente rischiosi.
Ma di cosa stiamo parlando in concreto? L’orizzonte temporale d’investimento è il periodo di tempo che intercorre tra la prima uscita finanziaria e la liquidazione definitiva di un investimento. Per definirlo è necessario riflettere bene su quale sia l’intenzione dell’investimento che vogliamo effettuare perché, se non è ben delineata, l’orizzonte temporale rimane fine a se stesso ed è poi difficile che l’investimento vada a buon fine.
Un errore comune, infatti, è quello di stabilire un orizzonte temporale di lungo termine – 10, 15, 20 anni o anche di più – partendo dal presupposto che “tanto questi soldi per ora non mi servono”. Ma se si fa riferimento a un arco temporale così ampio è naturale che si verificheranno degli eventi – inattesi e non programmabili – che metteranno in discussione quell’investimento: anche solo una diversa idea di impiego del capitale, oppure una grave crisi finanziaria, ma anche la voglia di soddisfare un bisogno improvviso o un problema con il lavoro. Tanti sono gli inconvenienti in agguato lungo il nostro camminino di vita e, quindi, finanziario.
Serve un’adeguata asset allocation
E questo è solo il primo step. Quello successivo, una volta stabilito l’orizzonte temporale d’investimento, è scegliere l’asset allocation più appropriata che poi si tradurrà nella selezione degli strumenti finanziari da inserire nel portafoglio, meglio se realizzata con un consulente al proprio fianco. Infatti, se l’orizzonte temporale è di 20 anni, si potrà decidere con relativa tranquillità di investire in un portafoglio aggressivo, con una asset allocation molto sbilanciata sull’azionario. Il portafoglio azionario è per sua natura molto volatile ma, sulla base dell’esperienza e delle statistiche relative agli ultimi due secoli di storia dei mercati finanziari, ci si può ragionevolmente attendere che tra 20 anni l’investimento genererà un rendimento positivo.
Il caso diametralmente opposto, invece, è quello di un investitore che abbia necessità di parcheggiare la sua liquidità solo per pochi mesi, una situazione vista spesso negli ultimi anni colpiti dalla pandemia e poi dalla guerra in Ucraina. In questo caso, la scelta di un investimento volatile come quello azionario sarebbe azzardata: il risparmiatore, invece, potrebbe optare per una asset allocation a basso rendimento, ma con una volatilità altrettanto contenuta, come può essere in questo momento un conto deposito dove collocare momentaneamente la liquidità.
Ecco perché l’orizzonte temporale è fondamentale per i nostri investimenti e per i rendimenti futuri, soprattutto quando parliamo di azioni. Nel breve periodo, infatti, le Borse possono registrare forti oscillazioni a causa di eventi esogeni ai mercati, ma se si allunga lo sguardo su periodi più ampi l’andamento dei titoli azionari tende a riflettere il reale potenziale di crescita delle società quotate sulla base dei loro fondamentali.
Ma facciamo un esempio concreto. Se avessimo investito 100 euro in un fondo azionario globale Paesi emergenti a luglio 2008, dopo soli sei mesi, complice il crollo delle Borse a seguito del fallimento di Lehman Brothers e della crisi sistemica dei mercati, quei 100 euro sarebbero scesi a 60 e l’investitore che avesse deciso di vendere in quel momento avrebbe registrato una perdita del 40% in un solo semestre. Se, invece, convinto della bontà della scelta, avesse mantenuto le quote del fondo, dopo tre anni i suoi 100 euro sarebbero diventati 122, con un guadagno del 22%.
Serve una ragione anche per disinvestire
Questo esempio introduce un ultimo tema, quello del disinvestimento. Anche in questo caso sarà difficile “centrare” il momento migliore e, comunque, prima di farlo è bene riflettere sul perché si liquida. Alcuni investitori scelgono di vendere i propri strumenti finanziari per massimizzare il guadagno, altri per limitare gli effetti di una perdita, altri ancora perché vogliono modificare la propria strategia d’investimento oppure perché hanno bisogno di liquidità. Ma bisogna fare attenzione, perché disinvestire per massimizzare il profitto potrebbe pregiudicare la possibilità di conseguirne uno ancora maggiore. Allo stesso modo, vendere per limitare le perdite non è sempre la scelta più profittevole, perché i mercati potrebbero sorprendere gli investitori con una rapida ripresa.
Per questo prima di pensare a liquidare è meglio riflettere sui motivi che hanno spinto l’investitore a comprare, perché a orientare le scelte dovrebbe essere l’obiettivo fissato in partenza a livello strategico. Cambiare strategia è sempre possibile, ma è consigliabile solo se si sono modificati anche gli obiettivi, l’orizzonte temporale dell’investimento o la propensione al rischio dell’investitore. Per non doversi pentire di aver venduto.
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