“I giovani devono comprendere che prima si entra in un fondo pensione meglio è, e vanno indirizzato verso asset rischiosi, Va fatto un passaggio culturale nella rappresentazione del rischio”, secondo Lucia Anselmi, direttore generale di Covip
“La previdenza integrativa va rilanciata per avvicinare ad essa le fasce più deboli della popolazione, come giovani donne. Ma servono norme stabili e certe, anche sul fronte fiscale allo stesso modo è necessario avere certezze”, dice Bruno Tabacci, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega al Coordinamento della politica economica
E che il sistema abbia retto lo dimostrano i numeri, presentati da Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, numeri che mostrano come le masse in gestione siano cresciute, insieme alle adesioni e ai rendimenti. Ma ancora non basta: ai fondi oggi sono iscritti 8,5 milioni di lavoratori, un terzo del totale. Restano fuori i giovani, in particolare, che vanno indirizzati verso il secondo pilastro su cui si fonderà la parte principale del loro reddito da pensione.
L’importanza della previdenza integrativa
Ma prima di analizzare a fondo le proposte di questi attori, vale la pena dare uno sguardo a qualche numero. Secondo l’Ottavo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, nel 2019 l’Italia ha destinato al welfare il 56,08% dell’intera spesa statale (che ammonta in totale a 800 miliardi di euro, la metà del Pil). Una percentuale che colloca il nostro Paese ai vertici delle classifiche mondiali, sfatando peraltro il luogo comune secondo cui si spenderebbe poco per le prestazioni sociali.
La spesa assistenziale a carico della fiscalità generale è in continuo aumento, passata dai 73 miliardi del 2008 agli attuali 114,27, con un tasso di crescita annuo superiore al 4%, senza considerare i circa 60 miliardi usati per pagare gli interessi sul debito pubblico, più di quanto spendiamo per l’istruzione (il che rende il sistema evidentemente squilibrato).
Pochi dati che, ancor di più alla luce dell’impatto economico-finanziario della pandemia di Covid-19, già rendono evidente l’importanza di valorizzare maggiormente il pilastro complementare, come parte indispensabile del sistema pensionistico italiano e, più in generale, del sistema di protezione sociale del Paese. La previdenza complementare può diventare uno strumento indispensabile per i lavoratori italiani per garantire una buona rendita al momento della pensione e, dall’altra, un “ponte” in termini di occupazione e crescita da qui al 2035/40, quando il tasso di disoccupazione dovrebbe essere prossimo al 4%, con salari e redditi in aumento, grazie alla ripresa economica.
Tabacci: per rilanciare la previdenza integrativa serve certezza normativa e fiscale
“Il rilancio della previdenza integrativa va attuato per avvicinare le fasce deboli, i giovani e le donne, in particolare, per non rischiare che diventi elemento di ulteriore polarizzazione della richezza. Precondizione è che ci siano norme stabili e certe, anche sul fronte fiscale”, a dirlo è Bruno Tabacci, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega al Coordinamento della politica economica. “La questione di fondo riguarda occupazione e assistenza, che poggiano su due presupposti. Il primo è lo sviluppo, il secondo la solidarietà – continua Tabacci – Lo sviluppo dopo la pandemia sembra alla portata, ma richiede una serie di riforme strutturale rispetto a cui siamo stati sempre restii e per questo in Europa siamo sorvegliati speciali. L’assistenza ai più deboli poggia sul contributo di solidarietà, e va maneggiata con cure perché presuppone la riconoscibilità dell’uno verso l’altro, cosa che non mi sembra praticata in Italia dove si difendono più che altro le proprie esigenze. È impossibile avere un’esatta idea delle povertà e delle disuguaglianze se l’economia sommersa sfiora il 20%”.
Anche Tabacci conferma, prendendo a prestito le parole del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, che la previdenza integrativa ha retto. “E ha retto efficacemente per effetto dell’aumento dell’età pensionabile e per l’introduzione del sistema contributivo – spiega Tabacci – Riforma che potevano probabilmente essere fatte meglio ma che hanno avuto il merito di affermare un principio. E lo schema contributivo ha dimostrato di essere più resiliente agli choc macroeconomici e all’aspettativa della longevità, rispetto a cui quello retributivo non era più sostenibile”.
Anselmi (Covip): “Solo un terzo degli italiani che lavorano ha sottoscritto un fondo pensione”
“Con la pandemia abbiamo rischiato un tracollo, ma per fortuna anche grazie all’intesa attività di comunicazione che i fondi hanno compiuto per rassicurare gli aderenti ed evitare una corsa ai riscatti, il sistema ha retto”, aggiunge Lucia Anselmi, direttore generale Covip. Oggi la previdenza complementare conta oltre 200 miliardi di masse in gestione, cresciute nel 2020 e anche nel primo semestre del 2021, con trend di adesioni e rendimenti positivi. “C’è stato anche l’effetto di forme di adesione automatiche entrate in vigore nei contratti collettivi (che di fatto obbliga a versare il datore di lavoro, ndr), ma i numeri del 2021, epurati da questo effetto, mostrano che il trend prosegue – dice Anselmi – Il problema è che gli iscritti sono 8,5 milioni, circa un terzo dei 25 milioni di lavoratori italiani. Una platea piccola che lascia fuori in particolare certe categorie, come i giovani e le donne e certe aree del Paese dove si fatica a entrare nel mondo del lavoro. Ma anche chi è coinvolto nel sistema produttivo ha una bassa propensione ad aderire a forme di previdenza integrativa, ancora una volta soprattutto nei giovani per cui l’urgenza è il presente”. La soluzione? “Creare consapevolezza sul futuro, un po’ la pandemia in questo ha aiutato. La stessa adesione automatica sancisce solo l’ingresso in un fondo, ma se successivamente mancano versamenti costanti e adeguati, è inutile – spiega il direttore generale di Covip – I giovani vanno guidati verso investimenti a più elevato rischio, che nel lungo termine viene comunque abbattuto. E devono comprendere che prima si entra in un fondo pensione meglio è, ma va fatto un passaggio culturale nella rappresentazione del rischio”.
Loeser (Arca Fondi Sgr): “va introdotto l’obbligo di adesione”
Basta una diversa rappresentazione del rischio per attrarre i giovani? “Serve un obbligo di legge – risponde Ugo Loeser, amministratore delegato di Arca Fondi Sgr. “Il rendimento è proporzionale al tempo, il rischio alla radice quadrato del tempo. Oltre un orizzonte temporale specifico il rischio sparisce e nello specifico oltre i 30 anni nessuno ha mai perso soldi investendo in Borsa. Andare su prodotti garantiti significa invece accontentarsi del capitale, garantito appunto, senza aspirare a un euro di più. I comparti a capitale garantito, che oggi sono obbligatorio per i fondi, andrebbero eliminati in un mondo a tassi negativi perché non consentono di cogliere le opportunità di rendimento. Uno degli elementi su cui stiamo spingendo è la liquidabilità degli asset finanziari che hanno un costo, che su orizzonti temporali lunghi non è necessario pagare, perché è sempre presente l’opportunità di uscire con profitto da un illiquido”. Gli illiquidi: un tema importante, perché, secondo Loeser, trovano la loro destinazione naturale proprio nei fondi pensione. “I pir che investivano in Vc era un assurdo concettuale – dice l’ad di Arca Fondi Sgr – è la previdenza il luogo dove si deve cercare di finanziare l’economia reale. Noi abbiamo una vasta gamma di fondi diretti in aziende e vc e questa è la fonte principale di rendimento. Pagare un premio di liquidità in un fondo previdenziale non ha senso. La differenza di rendimento tra il fondo Italia economia reale e quello liquido è nell’ordine di decine di punti, grazie a un’economia straordinaria di cui ci avvantaggiamo. L’unico veicolo pubblico per partecipare a questi rendimenti è la previdenza integrativa. Il fondo comune per definizione non lo può fare perché deve avere liquidabilità giornaliera. Abbiamo dunque gli strumenti, abbiamo liquidità – quei 1800 miliardi sui conti correnti che gridano vendetta – ma è velleitario pensare che un ventenne rinunci a una parte del suo reddito per investire in pensione. Bisogna eliminare la discrezionalità del versamento e va stressato il tema del lungo periodo”.
Saporito (Fabi): “destinare una parte dei contributi pubblici ai fondi pensione”
E c’è un altro tema, ovvero “l’allargamento della base che partecipa al mondo del lavoro”, afferma Vincenzo Saporito, responsabile del Dipartimento Nazionale Welfare per Fabi. “Ci vorrebbero meccanismo continuo e strategico da parte della politica, di cui oggi non possiamo avere certezza. Noi come operatore del settore però possiamo fare qualcosa. Possiamo fare innovazione anche nell’offerta della previdenza complementare e possiamo fare informazione verso i silenti, che possono guadagnare il contributo del datore di lavoro aderendo al fondo pensione. Ci sono situazioni misurabili nel settore bancario e non solo e che possono essere sanate. Certo è che forme di contribuzione obbligatoria alla previdenza complementare sono quasi una necessità. Si potrebbe immaginare di scorporare una piccola parte del 33% di contributi obbligatori all’Inps e destinarli a un fondo a scelta dell’interessato, senza tagliare lo stipendio netto. Anche perché la previdenza pubblica riconosce un rendimento pari alla media del pil degli ultimi cinque anni, che oggi è allo 0,9%, mentre i fondi pensione hanno reso nello stesso periodo il 3,7%. Questo obbligo potrebbe innescare anche una forma di concorrenza che spingerebbe anche l’istituto pubblico a gestire meglio il proprio patrimonio. Insomma le cose da fare sono diverse e possibili”.