La nuova disciplina si applicherà alle società con una capitalizzazione di mercato di almeno 80 miliardi di euro e che offrono almeno un servizio online
L’accordo raggiunto dagli eurodeputati dovrà passare al vaglio degli Stati membri prima di diventare legge (presumibilmente il prossimo anno, nei desiderata di Bruxelles)
I parlamentari hanno deciso di non vietare la pubblicità mirata, ma di imporre severe restrizioni e requisiti di trasparenza più stringenti
Le posizioni dei partiti
L’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici, secondo gruppo politico del Parlamento europeo, aveva spinto affinché le regole venissero estese in modo tale che un maggior numero di aziende cadesse sotto l’ombrello della regolamentazione. Ma il Partito popolare europeo del centro-destra, che vanta tra i propri membri anche Angela Merkel e Ursula von der Leyen, desiderava una regolamentazione più mirata e rivolta unicamente alle più grandi aziende tecnologiche. Andreas Schwab, eurodeputato del Partito popolare europeo che guida i negoziati sul Dma, ha salutato l’accordo come il “game over delle pratiche commerciali sleali nei mercati digitali”, esprimendo soddisfazione per il “messaggio unito” inviato dal Parlamento al mercato.
Verso il Digital services act
I parlamentari, come parte dell’accordo raggiunto, hanno deciso di non vietare la pubblicità mirata (fonte di entrate soprattutto per Google e Facebook) ma di imporre severe restrizioni e requisiti di trasparenza più stringenti. Si attende ora una posizione comune anche sul Digital services act, progetto di legge che punta a disciplinare i contenuti illegali o dannosi online. I regulators sperano di concordare una posizione comune tra Parlamento, Commissione e Stati membri all’inizio del prossimo anno, prima delle elezioni presidenziali francesi (in programma tra il 10 e il 24 aprile 2022).
Multa da 2,4 miliardi per Google
Intanto, Google dovrà pagare una multa da 2,4 miliardi di euro inflittagli dall’antitrust europea nel 2017 con l’accusa di concorrenza sleale nei confronti di società minori specializzate in servizi di ricerca per acquisti online, favorendo il suo servizio di comparazione prezzi “Google Shopping”. Il 10 novembre il tribunale generale dell’Unione europea ha bocciato infatti il ricorso del colosso di Mountain View, ritenendo che la Commissione europea abbia “correttamente riscontrato effetti dannosi sulla concorrenza”.
Dall’altra parte dell’Oceano, come anticipato in apertura, Yahoo! ha annunciato lo scorso 2 novembre la decisione di abbandonare la Cina continentale a causa di un “contesto legale e commerciale sempre più impegnativo”, come riferito da un portavoce all’agenzia Reuters. La società di Sunnyvale ha bloccato i suoi servizi a partire dal 1° novembre, sottolineando di continuare a impegnarsi per i diritti dei propri utenti e per “un Internet libero e aperto”. La mossa segue quella di Microsoft, che ha staccato la spina alla versione cinese di LinkedIn lo scorso mese.