Se vendi un quadro di Monet, uno soltanto, devi per forza pagarci le tasse? In teoria, no. In pratica sì, come emerge dalla sentenza 19363/2024 della Corte di Cassazione relativamente al contenzioso fra un collezionista e l’Agenzia delle Entrate. In quanto venditore occasionale, il venditore non avrebbe dovuto pagare tasse sul guadagno generato dalla vendita del quadro, ma l’autorità fiscale ha presunto diversamente, e gli ermellini le hanno dato ragione. Del sistema fiscale italiano non v’è certezza, ed è «questa ambiguità che è allucinante», commenta Massimo Sterpi, avvocato socio di GOP, raggiunto da We Wealth mentre si apprestava a intervenire come speaker alla TATE Modern di Londra su creatività e intelligenza artificiale.
Cosa è successo
L’antefatto. Una persona fisica italiana vende nel 2013 un dipinto di Monet tramite una prestigiosa casa d’aste. Realizza un guadagno nell’intorno dei cinque milioni di euro, avendo acquistato la tela per 1,5 milioni di euro e rivendutala per 6,5. Fra l’acquisto e la vendita passano sette anni. Il soggetto non è titolare di partita Iva, non come mercante d’arte, perlomeno. In realtà, l’Agenzia delle Entrate qualifica la plusvalenza generata come reddito derivante da attività commerciale occasionale, ossia imponibile ai fini Irpef ex articolo 67, comma 1, lettera i), del Tuir. E addebita la relativa imposta.
Inizia la contestazione. Il ricorrente si difende sostenendo di essere un “mero collezionista privato”, e di avere ceduto l’opera con l’intenzione di acquistarne poi un’altra (pratica che ogni collezionista conosce molto bene). Il primo grado di giudizio accoglie il ricorso, ma l’Agenzia delle Entrate va in appello, ottenendo il parere favorevole dei giudici di secondo grado. Si finisce in Cassazione. I giudici di ultima istanza danno ragione al Fisco: a loro detta, il collezionista si è comportato come uno speculatore, seppure occasionale. E deve pagare le tasse, assolvere al suo debito tributario derivante dalla vendita del quadro di Monet.
Come mai? I giudici adducono varie motivazioni al riguardo.
Vendita del quadro di Monet da parte di un collezionista italiano: l’intento era speculativo e quindi le tasse bisognava pagarle
Una premessa: nell’ultimo grado di giudizio si è scelto di seguire la tripartizione fra mercante, speculatore occasionale e collezionista puro, in base a «tre fattispecie consolidate nella giurisprudenza», prosegue l’avvocato, quelle che emergono dall’ordinanza 6874/2023 e dalle ordinanze 1603 e 1610/2024, che la ribadiscono. «Già distinguere fra lo speculatore occasionale e il collezionista puro è come discutere del sesso degli angeli. O, se si preferisce, una pura questione di lana caprina. È infatti ben difficile determinare quale sia la “intenzione” del collezionista al momento della vendita, anche perché le ragioni potrebbero essere più d’una. », fa riflettere Sterpi.
Ad ogni modo, secondo i giudici di Cassazione, nel caso in esame, c’è stata speculazione. «È interessante soffermarsi sui criteri che hanno fatto propendere gli ermellini a definire “speculativo” l’intento del collezionista nel caso di specie», osserva l’esperto. Del resto «la Cassazione non può rivedere l’analisi di fatto: può valutare solo se i criteri utilizzati nei precedenti gradi di giudizio sono stati giuridicamente logici». E qui, lo sono stati? Gli elementi presi in considerazione inducono diverse riflessioni, non favorevoli alla Corte.
Gli elementi indici di speculazione
Innanzitutto, l’elemento della vendita tramite casa d’aste. «E se non tramite un operatore qualificato come una casa d’aste, come lo si sarebbe dovuto vendere il quadro di Monet, per strada?», si interroga Massimo Sterpi.
Secondo aspetto: il collezionista aveva concesso in prestito il quadro al museo Kimbell di S. Francisco al fine – secondo la Corte – di “valorizzarla in vista della vendita”. Un fatto quest’ultimo, «che si commenta da sé. Ciascun collezionista ambisce a vedere qualche sua opera esposta in un museo prestigioso e, per di più, sembra del tutto commendevole che un collezionista renda accessibile al pubblico un capolavoro di Monet prestandolo ad un importante museo»; ne va del pedigree dell’opera, della sua reputazione personale e della diffusione dell’arte e della cultura.
Terzo: il fatto che fossero passati “solo” sette anni fra il momento dell’acquisto e quello della vendita. Obiettivamente non un periodo irrisorio, né sintomo di ansia speculativa. Ma la Suprema Corte non è stata d’accordo.
Il quarto elemento, è «ancora peggiore dei precedenti: l’intento speculativo – secondo la cassazione – si deve anche al fatto che il collezionista ci ha guadagnato tanto, avendo realizzato una plusvalenza di 5 milioni di euro. Dunque massimizzare il profitto non va bene?!? Siamo ai limiti dell’invidia sociale. È la negazione dello status di riserva di valore intrinseca ai pleasure asset e del fatto che la variazione dei prezzi delle opere d’arte, specie di quelle cedute in asta, è imprevedibile».
Ulteriori elementi che hanno fatto propendere per le tasse richieste sul quadro di Monet
I giudici hanno inoltre sottolineato come il ricorrente avesse compiuto operazioni similari “in periodi antecedenti e successivi”, tralasciando di considerare che l’opera di Monet fosse stata l’unica alienata nell’annualità accertata. Ma non è finita. Ad avvalorare l’intento non speculativo del soggetto alienante, gli ermellini avrebbero potuto considerare anche il fatto che lo stesso, nel medesimo anno, avesse acquistato tre opere d’arte. Aveva infatti permutato quattro opere di Segantini con una di Gauguin.
Vendita di opere d’arte e tassazione, guardando al futuro
«Il problema non è “pagare le tasse”, ma il contesto incerto e aleatorio della normativa», prosegue l’avvocato Sterpi. «Nella maggior parte dei Paesi le tasse sulle plusvalenze derivanti da vendita di opere d’arte si pagano, non è questo il problema. I collezionisti richiedono certezza». A tal proposito lo studioso mette in guardia chi ha acquistato le opere in contanti, magari tanti anni fa, senza malafede. O chi banalmente dopo molto tempo ha smarrito le fatture di acquisto delle opere, in quanto, «nel momento in cui si vende un’opera e non si ha la prova di acquisto, si rischia di dover pagare l’imposta sull’intera plusvalenza, che è presunta essere pari al prezzo». Collezionare arte in questo modo in Italia «diventa sfidante, a dir poco». E al superamento di determinate soglie, nemmeno molto alte, gli illeciti fiscali possono anche integrare gli estremi di un reato.
Urge l’attuazione della delega per la riforma fiscale (legge 111/2023). Infatti l’articolo 5, comma 1, lett. i), n. 3), della stessa, fa proprio riferimento a “l’introduzione di una disciplina sulle plusvalenze conseguite, al di fuori dell’esercizio di attività d’impresa, dai collezionisti di oggetti d’arte, di antiquariato o da collezione nonché, in generale, di opere dell’ingegno di carattere creativo appartenenti alle arti figurative, escludendo i casi in cui è assente l’intento speculativo, compresi quelli di plusvalenza relativa a beni acquisiti per successione o donazione, nonché esonerando i medesimi da ogni forma dichiarativa di carattere patrimoniale”.